Cucinare in carcere

 

Rebibbia Confidential

www.dissapore.com

MARCO BACCANELLI (The Fooders). La notte prima di entrare a Rebibbia non sono riuscito a chiudere occhio. Pensavo. Pensavo a qualsiasi cosa, mi ponevo quesiti di ogni genere. Leciti dubbi e morbose curiosità da persona che non è mai stata a contatto con questa realtà. Sia chiaro che non erano pensieri del tipo “che bello andiamo a cucinare con dei detenuti, che esperienza eccitante!”, ma ti senti davvero un pivello. Mi è capitato di parlare con persone che erano li, come me, da ospiti, e in alcuni di loro era chiara quell’insensata esaltazione e curiosità di avere “un incontro ravvicinato di qualsivoglia tipo con un carcerato”, come fossimo allo zoo.

Poi c’è chi in maniera evidente manifesta disagio, e chi cerca di fare l’amicone con tutti per far vedere che lui li dentro ci sguazza…tutte cazzate.

Dentro un penitenziario non si sta bene, mai.

Io del carcere di Rebibbia ho visto l’entrata, il corridoio che porta fino alle cucine, le cucine e questa enorme sala dove abbiamo mangiato tutti assieme. Dentro, ci entri dopo aver svuotato le tasche e dopo il passaggio sotto al metal detector. No telefoni, no chiavi, nessun oggetto contundente entra da fuori. Con noi sono passati solo 10 piccoli matterelli per stendere la pasta.

La cucina è enorme, come quelle da catering. Forno, abbattitore, bollitore, zone separate fra loro come Dio ASL comanda. E se ti capita di dimenticare che sei dentro un carcere di massima sicurezza, sono le sbarre alle finestre e la polizia penitenziaria in giro per la cucina a ricordartelo. Questa cucina deve produrre cibo a pranzo e a cena. Solo nel nuovo complesso vivono oltre 1800 uomini, complesso che tra l’altro potrebbe ospitare non più di 1500 persone, chiaro esempio di overbooking, non è così?

Cominciamo a cucinare.

Spiego ai detenuti come impastare uova e farina per fare la pasta. Alcuni mi ascoltano, altri mi prendono in giro agitandomi davanti al naso la palla di pasta già stesa, mentre io mi perdo in spiegazioni tecniche.

I coltelli che si usano sono sempre gli stessi, si contano appena entrati in cucina e si ricontano all’uscita. Mentre stendiamo la pasta chiedo ai ragazzi se in cucina ci sono delle acciughe e loro mi spiegano che sono vietate. Qualche anno fa un detenuto con delle acciughe sottovuoto fece entrare anche altro, quindi ora quell’alimento è vietato.

Uno di loro si chiama Omar, è egiziano, gli altri mi raccontano che fa una pizza buonissima, ma senza lievito perché non lo possono usare causa fermentazione alcolica. Io mi lascio sfuggire qualcosa sul lievito madre e per la prima volta noto silenzio e interesse.

Assieme alla pasta avremmo dovuto fare anche il ragù, ma la carne lasciata all’aria aperta procurata molto gentilmente dagli operatori di Rebibbia ci ha fatto preferire un ajo e ojo, unica soluzione possibile. Fortunatamente apprezzata da tutti, anche se per qualcuno l’aglio era poco soffritto.

Dentro è un mondo a parte. Tutto è filtrato, si vivono continui paradossi, e penso di non sbagliare se dico anche diverse ingiustizie. Molti detenuti che in quei giorni facevano lo sciopero della fame mi chiedevano cosa si diceva fuori. Tu come glielo spieghi che mentre loro si privano anche del cibo, fuori parlano di Tarantini, le puttane e… tutto tranne il loro sciopero?

FRANCESCA BARRECA (The Fooders). Alla mail che ci invita a Rebibbia per un’attività legata al festival Soulfood di Donpasta, rispondo così:

” (…)avendo vissuto per anni nel quartiere popolare Pietralata, ci sono passata davanti milioni volte per andare a trovare mia nonna che abita nel quartiere strapopolare di San Basilio, quindi ho guardato quel carcere miliardi di volte dal finestrino posteriore della Fiat Uno blu dei miei genitori. Quando sei bambino ti fa riflettere molto vedere spesso un carcere, quindi disponibilità massima!”

Generalmente in cucina gli uomini che non mi conoscono mi trattano da donna. Della serie Marione fallo tu quel lavoro lì che quella Francheschina sicuramente non può farlo, è una donna! Ma che ci fa qui!

A Rebibbia no, invece, là gli uomini del maschile, quelli che lavorano in cucina o ci vanno in qualche modo vicini, sono nella condizione psicologica di un essere vivente in una gabbia. Hanno gli occhi tristi, a tratti li vedi felici di vedere qualcuno che è venuto da fuori, non strilla nessuno, e soprattutto sono tutti obbedienti.

Nonostante la loro attenzione alle spiegazioni, mi sentivo una cogliona che faceva fare la pasta (a degli ergastolani, in qualche caso) sperando di fargli passare una bella giornata. Eeeee!!! E’ qui la festa?!

Nonostante io abbia sempre creduto nel contatto umano con le persone in difficoltà, questa volta ero scettica ma ho proseguito nella mia scenetta di insegnante di cucina: avevo da poco fatto centinaia di tortelli con lo chef Salvatore Tassa e ho sganciato qualche trucchetto sulla sua pasta all’uovo a qualche detenuto. Poi, tutto un susseguirsi di: il coltello si tiene così, le erbe asciugale bene sennò le maceri, la cipolla tagliala così, non far bruciare quello e quell’altro.

La pasta all’uovo è venuta bene, e loro si sono fatti anche qualche risata. E anche io, anche troppo lo ammetto, qualcuno era del mio stesso quartiere, quindi a un certo punto è cominciata una serie di: ma lo conosci il figlio di, il fratello di, ma a che scuola sei andato, etc. La borgata era sicuramente un punto in comune, e alla fine lo scambio è riuscito.

Le mie informazioni per le loro: ve ne dico qualcuna.

– L’aglio in crema in cella si fà mettendo lo spicchio in una busta di plastica per poi pestarlo con la moka.
– La pizza, si fà anche la pizza in cella, ma senza lievito, che sennò la gente crea l’alcool per stordirsi.
– Si fà anche la pasta all’uovo, infatti fra quei ragazzi ce n’era uno (il classico omone che a Roma viene definito “un cristone”) che ha impastato meglio di una macchina, ha fatto una palla di pasta così liscia che sembrava il culetto di un bambino.

Poi, in ogni cella ci sono 4 o 6 detenuti, e ovviamente non tutti sanno cucinare, quindi ce n’è uno che cucina per tutti. E gli ingredienti? Gli ingredienti per cucinare si comprano con il budget settimanale (proveniente dalle famiglie) che i detenuti più generosi mettono a disposizione per fare una spesa comune. Infatti chi può cerca di evitare il carrello. Il carrello: con il carrello passano i pasti della mensa. In quei giorni c’era lo sciopero del carrello, ma nessuno ne ha parlato. Quello stesso giorno Grazia Soncini del ristorante La Capanna di Eraclio riconquistava la stella Michelin, e la Festa a Vico era in preparazione.

Tanti commentatori di Dissapore dissertavano qua e là di cibo come fosse oro. E anche io ne ho parlato così a loro, no, senza farmi scrupoli del fatto che non potessero permetterselo. Secondo me instillare una curiosità, spingere alla ricerca, cercare di tendere al meglio è di fondamentale importanza. Vorrei concludere con una frase fondamentale, tratta da una serie-tv capolavoro: OZ, che dice più o meno così.

“Se ci fossero più scuole, e investimenti sull’istruzione, ci sarebbe molto meno bisogno di costruire continuamente carceri”.

[Crediti | Link: Soulfood, Dissapore, Festa a Vico. Tutte le immagini sono di Davide Dutto]


Avanzi di galera, Le ricette della cucina in carcere.

www.mangiarebene.com
www.ildue.it a cura di Emilia Patruno
Guido Tommasi Editore, 2005
€ 13,00.
Oltre al premio Cenacolo 2004 vince nel mese di Luglio 2006 la V edizione del premio di Letteratura Enogastronomica di Minori (Sa)

Non ho problemi a raccontarvi che è uno dei migliori prodotti editoriali che mi sia capitato tra le mani negli ultimi tempi: testimonianze rivelatorie di un mondo ai più sconosciuto, grafica piacevole, usabilità agevole.
Vi ricordate quel programma televisivo in cui una Daria Bignardi pre-Grande Fratello, entrava nelle carceri italiane alla scoperta della vita quotidianità in cattività? Beh, qui il principio è lo stesso, ma con un occhio di riguardo al cibo, alla sbobba, al rancio, al carrello…
Perché a San Vittore non è come nei film americani, non c’è una mensa comune: in carcere si mangia chiusi in cella, con orari da ospedale (alle 11,30 e alle 17,30). Se va bene si è in quattro, se va male in 6, 8 e così via. Il fornello è a 30 cm dal bagno alla turca, i coltelli non esistono, funghi vietati, alcolici neanche a parlarne.
In carcere, chi ha qualcuno che glielo manda, mangia dal “pacco”, per gli altri c’è il “carrello”.Cooperativa Il Due
Oppure quello che ci si cucina: in carcere si recupera, si inventa, ci si arrangia, ed ecco allora qualche suggerimento da chi di tempo ne ha davvero tanto per dedicarsi ai fornelli…
Polpette di pane alla umile
Per la preparazione di questo piatto bisogna innanzi tutto conservare il pane del giorno precedente, mezzo litro di latte a lunga o breve conservazione, una patata, del formaggio grattugiato, qualche uova, due o tre acciughe, aglio prezzemolo, sale, pepe, un paio di barattoli di polpa pronta a pezzi da mezzo chilo ciascuna, una cipolla, del pane grattugiato e dell'olio di semi.
Quasi tutti gli ingredienti vengono passati dalla "casanza", ma in caso vi mancasse qualcosa domandate pure a qualche vostro compagno, non penso vi negherà l'indispensabile.
Mettete il pane raffermo (quattro o cinque panini) nel latte per qualche minuto, fatelo diventare una poltiglia, quindi scolate più latte possibile.
Tritate due spicchi di aglio con abbondante prezzemolo e le acciughe.
Fate bollire la patata e passatela con un bicchiere attraverso lo scolapasta, dato che il passaverdura non è a disposizione di tutti.
Fate un impasto del pane con la patata e il tritato, aggiungete tre tuorli d'uovo e un albume, del formaggio grattugiato abbondante, sale e pepe a piacere. Se l'impasto è troppo morbido mettete del pane grattugiato (non troppo).
Preparate le polpette rotonde, o rotonde e schiacciate, come vi aggrada, e passatele nel pane grattugiato. Nel frattempo fate andare l'olio di semi in una padella e quando avrà raggiunto la temperatura di frittura ponetevi dentro le polpette fino a raggiungere il classico colore dorato, quindi ponetele in un piatto con della carta che assorba l'olio.
Mettete a rosolare la cipolla tagliata a strisce e versatevi sopra il contenuto dei barattoli di polpa pronta. In uno dei due barattoli riempitelo per la metà di acqua e passatelo nell'altro in modo di non perdere neppure una parte della polpa contenuta, aggiungete un po' di sale e ponete nel sugo le polpette facendole andare a fuoco lento per quaranta minuti.
Le polpette sono pronte ed eventualmente con il sugo si potranno condire due spaghetti cotti al dente.

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Chef italiani dietro alle sbarre. La cucina in carcere per "Sapori reclusi" (FOTO, VIDEO)

www.huffingtonpost.it

Nicoletta Moncalero, L'Huffington Post

Pubblicato: 24/10/2013 13:06 CEST Aggiornato: 24/10/2013 16:37 CEST

Non è stata solo un’idea di Gordon Ramsay. Anche in Italia, e ben prima, un bel gruppo di chef ha scelto di cucinare in carcere, con guardie e detenuti. Solo che l’ha fatto senza andare in tv. È successo una decina di anni fa la prima volta e continua ancora, in Piemonte. È tutto documentato in un libro fotografico di Davide Dutto. Si chiama Gambero Nero ed uscì nel 2005. Ne parlò anche The Observer, nel suo inserto dedicato al food. E lo fece così bene che colpì proprio Gordon Ramsay che si mise in contatto con Dutto. “Mi chiamò una sua collaboratrice – racconta il fotografo piemontese – e mi disse che stavano preparando un programma per channel 4”. Lo stesso canale che poi ha trasmesso “Gordon behind bars” nel 2012. Che sia stato d’ispirazione o no, Dutto continua il suo lavoro tra le sbarre attraverso un’associazione, Sapori Reclusi. Ha iniziato a Fossano (Cuneo), poi è andato nel carcere di Alessandria e a Rebibbia. Con lui, chef di ristoranti della zona, ma anche internazionali e stellati, come Ugo Alciati e Maurilio Garola o come Stefano Fagioli, già visto in tv, Andrea Ribaldone e Davide Palluda. Hanno preparato piatti tipici (dall’insalata russa ai bignè) servendosi di cucine non proprio attrezzate; hanno parlato con i detenuti, raccolto storie e forse ricette esotiche. Di sicuro hanno fatto tutto in modo molto più naturale rispetto a quanto imposto da un reality televisivo.

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Gli chef in carcere

“Sono stato in galera per dieci anni - spiega Davide Dutto –, come fotografo ho seguito e ideato questa serie di incontri e di lezioni di cucina con l’obiettivo di regalare ai detenuti un senso più umano alla loro esperienza in carcere. Cucinando hanno ritrovato sapori di casa, hanno imparato qualcosa di nuovo. Ricette di cucina e ricette di vita. E non è detto che non possa tornargli utile”. Nel frattempo Sapori reclusi è un’etichetta su una bottiglia di vino e mille altri progetti ancora, come “Pure ‘n carcere ‘o sanno fa’ ”: storie e confessioni al tempo di una moka.

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